martedì 3 dicembre 2013

Assaggi di lettura: Non cercarmi mai più di Emma Chase

Buongiorno!
Ho appena terminato la mia quinta guida da mezz'ora, e devo dire che ci sto prendendo la mano, anche se preferirei Ambrogio, l'autista e uomo tutto fare ahahhahah. Prima di uscire di casa avrei voluto postarvi il primo capitolo di Non cercarmi mai più di Emma Chase. Così una volta tornata a casa, avrei pubblicato la recensione. Come al solito ero in ritardo e pubblico entrambi i post adesso. Detto questo vi auguro una buona lettura e un buon proseguimento di giornata.




Capitolo uno

Vedete quello zozzo e irsuto ammasso sul divano? Il tipo con la maglietta grigia e sporca e i pantaloni della tuta strappati?
Sono io, Drew Evans.
Di solito non sono così. Insomma, quello non è il vero Drew.
Nella vita reale sono uno che si cura e si rasa sempre alla perfezione, e porto i capelli neri ben pettinati indietro sulle tempie, che mi danno un’aria – così dicono – aggressiva ma professionale. Indosso solo abiti su misura, e scarpe che costano più del vostro affitto.
L’appartamento in cui mi trovo adesso? Le tende sono tirate, e i mobili riflettono il bagliore blu della televisione. I tavoli e il pavimento sono disseminati di bottiglie di birra, cartoni della pizza e vaschette vuote di gelato.
Non è il mio vero appartamento. Il posto dove vivo io è immacolato: c’è una donna che viene a pulire due volte alla settimana. E ha tutte le comodità più moderne, tutti i giocattoli che potete immaginare: mega impianto con audio surround, casse satellitari e un enorme schermo al plasma che farebbe cadere in ginocchio qualsiasi uomo. Roba incredibile, insomma. L’arredamento è moderno – acciaio nero inossidabile a volontà – e chiunque varchi la soglia di casa mia capisce a colpo d’occhio che lì ci vive un uomo.
Perciò, come ho detto, il tipo che vedete adesso non sono davvero io. Sono malato.
Influenza.
Avete mai notato che alcune delle malattie peggiori della storia hanno un suono lirico? Parole come malaria, diarrea, colera. Lo faranno di proposito? Per indorare la pillola… un modo carino per dire che ti senti come una cosa marrone che è precipitata dal culo del tuo cane?
Influenza. Ha un bel suono, provate a ripeterlo.
O almeno, sono quasi sicuro che si tratti di influenza. Ecco perché sono rimasto chiuso nel mio appartamento negli ultimi sette giorni. Ecco perché ho spento il telefono, e mi sono alzato dal divano solo per andare in bagno o per aprire al tizio col cibo d’asporto.
E comunque, quanto dura l’influenza? Dieci giorni? Un mese?
La mia è iniziata una settimana fa. La sveglia è suonata alle cinque del mattino, come sempre. Ma anziché alzarmi dal letto e andare in ufficio, dove sono una star, ho scagliato l’orologio in aria, dritto sulla parete opposta.
In fondo mi ha sempre dato fastidio. Stupida sveglia. Stupido beep beep.
Mi sono voltato dall’altra parte e ho ricominciato a dormire. Quando, finalmente, ho trascinato il fondoschiena fuori dal letto, ero debole e avevo la nausea. Mi faceva male il petto, la testa. Insomma, è influenza, vero? Non sono più riuscito ad addormentarmi, perciò mi sono piantato qui, sul mio fidatissimo divano. È così comodo che ho deciso di metterci radici. Per tutta la settimana. A guardare le battute migliori di Will Ferrell sul mio schermo al plasma.
Ora c’è un film,Anchorman. La leggenda di Ron Burgundy. Oggi l’ho già visto tre volte, però non ho ancora riso. Neanche un ah. Forse il fascino sta nella quarta volta, eh?
Qualcuno bussa alla porta.
Dannato portiere. Che diavolo è venuto a fare? Se ne pentirà amaramente, quando riceverà la mia mancia a Natale, potete scommetterci il culo.
Ignoro i colpi, che nel frattempo continuano.
Ancora.
«Drew! Drew, lo so che ci sei! Apri questa maledetta porta!».
Oh, no.
È la Stronza. Altrimenti conosciuta come Alexandra, mia sorella.
Quando uso la parola stronza lo faccio nel modo più affettuoso possibile, giuro. Ma è quello che è. Insistente, presuntuosa, implacabile. Ucciderò il portiere.
«Se non apri la porta, Drew, chiamo la polizia per buttarla giù, lo giuro su Dio!».
Avete capito, adesso?
Afferro il cuscino che sta sulle mie gambe da quando mi è venuta l’influenza. Me lo schiaccio in faccia e respiro profondamente. Profuma di vaniglia e lavanda. Frizzante, pulito, dà assuefazione.
«Drew! Mi senti?».
Mi appoggio il cuscino sopra la testa. Non perché ha il suo profumo… ma per non sentire i colpi insistenti.
«Ho in mano il cellulare! Sto per comporre il numero!». La voce di Alexandra è piagnucolosa, trasuda minacce, e so che non scherza.
Respiro di nuovo e mi obbligo ad alzarmi dal divano. La strada verso la porta è lunga, ci vuole tempo: ogni passo è uno sforzo immane per le mie gambe legnose e doloranti.
Dannata influenza.
Apro e mi preparo spiritualmente all’ira divina della Stronza. All’orecchio, con una mano fresca di manicure, tiene l’ultimo modello di iPhone. I capelli biondi sono raccolti in una coda semplice ma elegante, e appesa alla spalla ha una borsetta verde scuro dello stesso colore della gonna. Lexi non sbaglia mai con gli abbinamenti.
Dietro di lei, adeguatamente contrito in un abito blu navy stropicciato, c’è il mio migliore amico e collega, Matthew Fisher.
Ti perdono, Portiere. È Matthew che deve morire. «Gesù Cristo!», urla Alexandra, orripilata. «Che cavolo ti è successo?».
Vi ho spiegato che questo non sono davvero io.
Non le rispondo. Non ho le forze. Non chiudo neanche la porta e mi lascio cadere di faccia sul divano. È confortevole e tiepido, anche se un po’ rigido.
Ti adoro, divano. Te l’ho mai detto? Be’, te lo dico adesso.
Anche se gli occhi sono coperti dal cuscino, avverto la presenza di Alexandra e Matthew, che si aggirano a passo lento nell’appartamento. Immagino il loro shock davanti alla scena. Sbircio fuori dal mio bozzolo, e capisco che l’occhio della mia mente ci aveva azzeccato.
«Drew?». Stavolta c’è una nota di preoccupazione racchiusa nella breve sillaba.
E poi si arrabbia di nuovo. «Per l’amor del cielo, Matthew, perché non mi hai chiamata prima? Come hai potuto lasciare che tutto andasse in malora così?»
«È un po’ che non lo vedo, Lex!», si affretta a rispondere. Vedete? Anche lui ha paura della Stronza. «Sono passato tutti i giorni e non mi ha mai aperto».
Sento che il divano si affossa: si è seduta accanto a me. «Drew?», sussurra, dolce. Con delicatezza mi fa scorrere una mano fra i capelli. «Tesoro?».
La sua voce è così dolorosamente preoccupata che mi ricorda quella di mia madre. Quando ero un bambino e stavo a casa malato, mamma veniva nella mia stanza con cioccolata calda e zuppa su un vassoio. Mi dava un bacio sulla fronte per controllare se fossi ancora caldo, e io mi sentivo subito meglio. Quel ricordo, insieme ai gesti di Alexandra, mi fa inumidire gli occhi chiusi.
Sono un disastro, vero?
«Sto bene, Alexandra», le rispondo, anche se non sono certo che mi senta. La mia voce si perde nel cuscino profumato. «Ho l’influenza».
Qualcuno apre un cartone di pizza, e un gemito per il tanfo del formaggio putrefatto e della salsiccia si libera nell’aria. «Non è esattamente la dieta di un malato d’influenza, fratellino».
Sento altri rimescolamenti di bottiglie di birra e pattume, e so che mia sorella ha iniziato a sistemare il casino. Non sono l’unico maniaco dell’ordine, in famiglia.
«Oh, non va per niente bene!». Lexi inspira con decisione, e giudicando dall’odore che si aggiunge al putrido aroma della pizza, immagino che abbia appena aperto una vaschetta di gelato abbandonata sul tavolo da tre giorni, che a quanto pare non era vuota come credevo.
«Drew». Mi scuote con dolcezza le spalle. Mi arrendo e mi tiro su, sfregandomi via la stanchezza dagli occhi. «Parlami», mi implora. «Cosa c’è? Cos’è successo?».
Mentre guardo l’espressione turbata di mia sorella, vengo trasportato indietro nel tempo di ventidue anni. Io ne ho sei, e il mio criceto, Mr Wuzzles, è appena morto. E proprio come quel giorno, la dolorosa verità mi esplode dai polmoni. «È successo».
«Successo cosa?»
«Quello che mi hai augurato per tutti questi anni», sussurro. «Mi sono innamorato».
Alzo la testa e vedo un accenno di sorriso. È ciò che ha sempre desiderato per me. È sposata con Steven da secoli, e lo ama anche da prima. Per questo non ha mai appoggiato il mio stile di vita e non vede l’ora che mi sistemi, che trovi qualcuno che si prenda cura di me, come lei si prende cura di Steven. Come nostra madre si prende cura di papà ancora adesso.
Ma io le ho detto di non illudersi, perché non sarebbe mai successo: non era ciò che volevo. Perché donare un libro alla biblioteca? Perché ripascere una spiaggia portando nuova sabbia? Perché comprare la mucca, quando puoi avere il latte gratis?
Iniziate a capire il quadro della situazione, ora?
Insomma, mi accorgo che lei inizia a sorridere quando, con una voce timida che non riconosco nemmeno, le dico: «Sta per sposare un altro. Lei non… non mi ha voluto, Lex».
La compassione si spalma sul viso di mia sorella come marmellata su una fetta di pane. E poi arriva la determinazione.
Perché Alexandra è una che sistema le cose. Lei è in grado di sturare uno scarico, di stuccare un muro, di rimuovere macchie di qualsiasi tipo dai tappeti. So già cosa le ronza per la testa in questo momento: se il suo fratellino è rotto, non le resta che sistemarlo con le sue mani.
Magari fosse così semplice. Ma non penso che tutto il Super Attak del mondo sia capace di rimettere insieme i frammenti del mio cuore.
Ho per caso accennato di essere anche un po’ poeta?
«Okay. Possiamo sistemare le cose, Drew».
Avete capito com’è fatta?
«Vai a farti una bella doccia bollente. Io sistemerò questo disastro. Poi usciamo. Noi tre».
«Non posso uscire». Ha sentito una sola parola di quello che ho detto? «Ho l’influenza».
Sorride, compassionevole. «Hai bisogno di un buon pasto caldo. E di una doccia. Dopo ti sentirai meglio».
Forse ha ragione. Dio solo sa che niente di quel che ho fatto negli ultimi sette giorni è servito a risollevarmi. Faccio spallucce e mi alzo, ubbidiente. Come un bimbo di quattro anni con il suo orsacchiotto preferito, porto il mio prezioso cuscino con me.
Sulla strada verso il bagno, non posso fare a meno di pensare a come ciò sia potuto accadere. Un tempo la mia vita non era niente male. Anzi, era perfetta. E poi è andato tutto in merda.
Oh, volete sapere come? Volete sentire la mia storia? Va bene, allora. Tutto è iniziato pochi mesi fa, un normale sabato sera.
Be’, normale solo per me.
Quattro mesi prima
«Cazzo, sì. Così. Sì, proprio così».
Vedete quel tipo, abito nero, diabolicamente affascinante? Già, il tipo che si sta facendo fare un pompino in un bagno da una sensuale testa rossa? Sono io. Il vero me. MPI: Me Pre Influenza.
«Gesù, piccola, sto per venire».
Congeliamo per un attimo la scena.
Per le donne sintonizzate là fuori, lasciate che vi dia un consiglio non richiesto: se un ragazzo che avete appena incontrato in un locale vi chiama piccola, tesoro,angelo, o con un altro generico vezzeggiativo, non fate l’errore di pensare che vi abbia affibbiato un nomignolo perché è interessato a voi.
Vi chiama così perché non riesce a ricordare il vostro vero nome. O non gli importa.
E a nessuna ragazza va di essere chiamata con il nome sbagliato mentre è inginocchiata a succhiarvelo nel bagno degli uomini. Così, per sicurezza, ho optato per piccola.
Il suo nome? Ha davvero importanza?
«Cazzo, piccola, sto venendo».
Si stacca con uno schiocco, e da vera esperta raccoglie il liquido che le schizzo in mano. Poi, mi sposto verso il lavabo per pulirmi e tirare su la cerniera. Testa Rossa mi sorride mentre si risciacqua con una bottiglietta da viaggio di colluttorio che teneva in borsa.
Affascinante.
«Che ne dici di un drink?», mi chiede, e sono sicuro che creda di avere una voce sensuale.
Ma ecco un’informazione per voi: quando ho finito, ho finito.
Non sono il tipo d’uomo che sale sulle stesse montagne russe due volte. Una è abbastanza, poi l’eccitazione svanisce e così anche l’interesse.
Ma mia madre mi ha cresciuto per diventare un gentiluomo. «Certo, tesoro. Vai a cercare un tavolo, io prendo qualcosa al bancone». Testa Rossa si è impegnata non poco, dopotutto. Si è guadagnata un drink.
Esce dal bagno in cerca di un posto per sederci, e io mi dirigo verso il bar-troppo-affollato. Ho già detto che era sabato sera, vero? E questo è il Rem. No, non REM come il sonno. Capito? Rem il locale. È il locale più in di tutta New York. O almeno lo è stasera. Entro la prossima settimana cambierà nome. Ma il luogo non conta. Perché il copione è sempre lo stesso. Ogni fine settimana io e i miei amici veniamo qui insieme e ce ne andiamo separatamente – e mai da soli.
Non guardatemi così. Non sono un cattivo ragazzo. Non dico bugie: non zavorro le donne con parole infiorettate che raccontano di un futuro insieme o dell’amore a prima vista.
Sono uno che va dritto al sodo. Io cerco di divertirmi – per una notte – e non ne faccio mistero. Sono migliore del novanta percento degli altri ragazzi qui dentro, credetemi. E la maggior parte delle ragazze che vedete stanno cercando la stessa cosa che cerco io.
Okay, forse non è del tutto vero. Ma non posso farci niente se mi conoscono, vengono a letto con me, e all’improvviso vogliono un bambino da me. Non è un problema mio. Io dico le cose come stanno, le faccio divertire e pago la corsa a casa in taxi. Grazie, buonanotte. Non chiamarmi, perché sicuro come l’oro io non chiamerò te.
Finalmente al bancone, ordino due drink. Mi prendo un attimo per guardare i corpi che si dimenano e contorcono e fondono gli uni negli altri sulla pista da ballo mentre la musica vibra nell’aria. E poi la vedo, a nemmeno cinque metri da me, che aspetta paziente ma che sembra un po’ a disagio nella mandria che agita le braccia, sventola bigliettoni e brama alcol, cercando di attirare l’attenzione del barista.
Ve l’ho detto che sono un po’ poeta, no? La verità è che non lo sono sempre stato. Non fino a questo momento. Lei è magnifica, angelica, stupenda. Scegliete una parola, una cazzo di parola qualsiasi. Il punto è che, per un attimo, mi sono dimenticato di respirare.
I suoi capelli sono lunghi e scuri, e brillano persino nella luce bassa del locale. Porta un abito rosso che le lascia la schiena nuda, sexy ma di classe, e accentua ognuna delle sue curve perfette. Le labbra sono esuberanti, piene, e implorano di essere profanate.
E i suoi occhi. Cristo. Sono enormi e infinitamente scuri. Me li immagino che mi guardano mentre mi prende il cazzo in quella minuscola bocca sexy. L’appendice in questione prende subito vita al pensiero.
Devo possederla.
Mi preparo ad abbordarla, decidendo all’istante che lei è la donna fortunata che avrà il piacere della mia compagnia per il resto della notte.
E parlo di un piacere immenso.
Arrivo proprio quando socchiude le labbra per ordinare un drink, ed esordisco così: «La signorina vuole…». La scruto per cercare di indovinare i suoi desideri alcolici. È un mio talento innato. Alcune sono il tipo da birra, altre da scotch e  soda, altre ancora da vino invecchiato, oppure brandy o champagne dolce. E io riesco sempre a indovinare chi è cosa. Sempre. «Un Merlot Veramonte, 2003».
Si volta verso di me con un sopracciglio alzato e mi squadra dalla testa ai piedi. Dato che decide che non sono un perdente, dice: «Sei bravo».
Sorrido. «Vedo che la mia reputazione mi precede. Sì, lo sono. E tu sei bellissima».
Arrossisce. Per la precisione le guance diventano rosa, e volta la testa dall’altra parte. Chi arrossisce più al giorno d’oggi? È adorabile.
«Allora, che ne dici di trovare un posto più comodo… e riservato? Così possiamo conoscerci meglio».
Senza un secondo di esitazione, risponde: «Sono qui con amici. Stiamo festeggiando. Di solito non frequento posti come questo».
«Cosa festeggiate?»
«Ho appena finito il mio MBA e inizio un nuovo lavoro lunedì».
«Davvero? Che coincidenza. Anch’io mi occupo di finanza. Forse hai già sentito nominare la mia azienda, Evans, Reinhart e Fisher?». Siamo la più figa banca d’affari della città, perciò sono sicuro che rimarrà debitamente impressionata.
Fermiamoci ancora un attimo, okay?
Avete visto le labbra di questa fantastica donna spalancarsi quando le ho detto dove lavoro? Avete visto gli occhi allargarsi? Ciò avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa.
Ma in quel momento non noto niente: sono troppo impegnato a dare una controllatina alle sue tette. Che, a proposito, sono perfette. Più piccole di quelle che scelgo di solito, riempiono appena una mano. Ma per quanto mi riguarda, una mano è più che sufficiente.
Il punto è: ricordatevi quello sguardo sorpreso, poi capirete il perché. Ora torniamo alla nostra chiacchierata.
«Abbiamo molto in comune», continuo. «Siamo entrambi nel mondo degli affari, a entrambi piace un buon rosso… Insomma, non possiamo lasciar perdere, stasera».
Ride, e la sua risata ha un suono magico.
A questo punto dovrei spiegare una cosa. Con ogni altra donna, o in ogni altra notte, a quest’ora sarei stato in un taxi, mani infilate sotto il vestito e bocca che la fa gemere. Nessun dubbio.
Per me, questo significa sbattermi. E stranamente è eccitante.
«Sono Drew, comunque». Allungo la mano. «E tu sei?».
Alza la mano. «Fidanzata».
Imperterrito, le prendo la mano e bacio una nocca, sfiorandola impercettibilmente con la lingua. Vedo che cerca di sopprimere un fremito, e capisco, nonostante le sue parole, che l’ho colpita. Sapete, non sono il tipo che dà retta a cosa dice la gente. Io bado solo alcome. Si può imparare molto su qualcuno semplicemente osservando come si muove, una mutazione impercettibile nello sguardo, l’alzarsi e abbassarsi del tono della voce.
Quegli occhi sbarrati potevano anche dire no, è vero… ma il corpo? Il corpo urlava Sì, sì, scopami sul bancone! Nell’arco di tre minuti, mi racconta perché è lì, cosa fa per vivere, e mi permette di palpeggiarle la mano. Questo non è il comportamento di una donna disinteressata, è quello di una donna che non vuoleessere interessata.
E su questo posso decisamente lavorare.
Sto per fare un commento sul suo anello di fidanzamento: il diamante è così minuscolo che neanche dopo un’attenta ispezione è possibile rintracciarlo. Ma non ho intenzione di offenderla.
Ha detto di essersi appena laureata. Ho amici che hanno dovuto pagarsi da soli la business school, e i prestiti possono essere devastanti.
Perciò scelgo una tattica diversa: l’onestà. «Anche meglio. Non frequenti posti come questo? Io non frequento relazioni. Siamo la coppia perfetta. Dovremmo approfondire meglio i nostri punti in comune, non pensi?».
Ride di nuovo, e arrivano i nostri bicchieri. «Grazie per il drink. Ora devo tornare dai miei amici. È stato un piacere», mi dice.
Sfodero un sorriso malizioso, incapace di trattenermi. «Piccola, se mi permetti di portarti fuori di qui, darò alla parola piacere un significato tutto nuovo».
Scuote la testa con un sorriso, come per dare il contentino a un bambino petulante. Mentre si allontana si volta: «Buonanotte, Mr Evans».
Come ho detto, di solito sono uno che fa caso ai dettagli. Sherlock Holmes e io potremmo essere migliori amici. Ma sono così catturato dalla vista di quel soave sedere che all’inizio non ci faccio caso.
Lo avete notato? Avete beccato il minuscolo dettaglio che io mi sono perso?
Esatto. Mi ha chiamato “Mr Evans”. Ma io non le ho mai detto il mio cognome. Ricordatevi anche di questo.
Per ora, lascio che la donna misteriosa dai capelli scuri batta in ritirata. Decido di darle un po’ di spago, poi penserò a darle lo strattone finale – colpita e affondata. La seguirò per tutta la notte, se necessario.
È davvero, davvero attraente.
Ma poi Testa Rossa – sì, quella del bagno degli uomini – mi trova. «Eccoti! Credevo di averti perso». Preme il suo corpo sui miei fianchi e mi strofina il braccio con intimità. «Che ne dici di andare a casa mia? È proprio dietro l’angolo».
Ah, grazie. Ma no, grazie. Testa Rossa si è trasformata in fretta in un ricordo sbiadito. I miei occhi sono puntati su prospettive migliori, più intriganti. Sto per dirglielo, quando un’altra testa rossa appare accanto a lei.
«Questa è mia sorella, Mandy. Le ho raccontato tutto di te. Pensa che noi tre potremmo… sai… divertirci un po’ insieme».
Volgo lo sguardo verso la sorella di Testa Rossa, la sua gemella, per essere precisi. E in un batter d’occhio i miei piani cambiano. Lo so, lo so… ho detto che non corro sulle montagne russe due volte. Ma montagne russe gemelle?


Ilaria di
Bookcret, quello che i libri non dicono

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